Cosa sono i presidi?
Il progetto dei Presìdi Slow Food nasce nel 1999 a seguito dell’idea di catalogare i prodotti a rischio d’estinzione in Italia. Lo scopo è di sostenere quelle piccole produzioni tradizionali che rischiano di scomparire. Esse sono un valore per il territorio poichè permettono di recuperare e mantenere antichi mestieri e tecniche di lavorazione, salvando dall’estinzione varietà di piante e razze animali autoctone.
L’idea negli anni si è diffusa ed è cresciuta, coinvolgendo 5 continenti e tutelando oltre 450 presidi in tutto il mondo.
Slow Food Italia ha introdotto dal 2008 un regolamento e un marchio specifico che evidenziano e tutelano i prodotti inseriti nel progetto.
Ulteriori informazioni le trovate su il sito della Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus
I nostri presidi
Abbiamo la fortuna e l’orgoglio di ospitare nel nostro territorio ben 2 presidi Slow Food:
Oca in onto
Un tempo nelle campagne venete si allevavano oche bigie oppure pezzate grigie e bianche, soppiantate nel tempo dalle grandi romagnole bianche. Con le oche si producevano salumi e prosciutti (i parsuti, in dialetto) – soprattutto dove erano presenti comunità ebraiche – e, in tempi più recenti, anche paté di fegato. Utilizzando tutte le parti del volatile si realizzava una particolare conserva: l’oca in onto, buona per conservare le carni molti mesi.
Niente di diverso da ciò che in Francia viene definito confit. Quella dell’oca in onto era una produzione invernale realizzata dalle donne di famiglia che occupavano i tempi morti della pausa stagionale per preparare conserve di cibo sostanziose da consumare poi in estate.
Per la conservazione in onto (detta anche oca in pignatto) le oche sono separate dalle loro parti grasse e tagliate a pezzetti. Le carni riposano sotto sale per alcuni giorni oppure sono cotte con erbe, aromi e un poco di vino rosso e, successivamente, si ripongono direttamente in un orcio di terracotta o vetro. Nella versione cruda si alternano pezzetti di carne a grasso d’oca fuso e foglie d’alloro, nella versione cotta invece si completa l’ultimo strato con il grasso fuso e si chiude il vaso.
La lavorazione in onto consente una lunga conservazione delle carni che durano in questo modo tutto l’inverno e, volendo, anche un paio d’anni. Al momento del bisogno si estrae dall’orcio la quantità di oca che serve e la si cuoce in casseruola per servirla come sugo o come secondo piatto.
Gallina Padovana
Una lunga barba, i favoriti sulle guance e un ciuffo di penne lunghe e lanceolate che si aprono a corolla e le piovono sugli occhi. La diatriba sulla sua origine non si è mai conclusa, ma fra tutte c’è un’ipotesi più probabile di altre. Nel Trecento il marchese Giacomo Dondi dall’Orologio, medico e astronomo padovano, durante una visita in Polonia, ne avrebbe preso alcuni capi per arredare il giardino della sua villa gentilizia.
Ai primi del Novecento se ne contano ancora alcune migliaia di capi, ma negli anni Sessanta scompaiono quasi definitivamente. In Italia la conserva l’Istituto Superiore di Istruzione Agraria Duca degli Abruzzi di Padova.
La pelle è sottile e la carne morata (non candida come quella a cui è abituato il consumatore), simile a quella del fagiano o della faraona. La preparazione più classica ricorda la francese poularde en vessie, cotta nella vescica del maiale e servita con salsa suprême e riso pilaf. Ma il sofisticato ripieno della gallina a la canavéra, giocato su un delicato equilibrio fra salato, dolce (della mela), agro (di arancia e limone) e speziato, ricollega piuttosto la sua origine agli esotismi della vicina Venezia. La canavéra è la piccola canna di bambù che permette al liquido di cottura di evaporare parzialmente. Poi la gallina si chiude in un sacchetto (un tempo si usava la vescica del maiale) e il sacchetto si immerge in una pentola di acqua, lasciando fuoriuscire la canavéra per almeno dieci centimetri. La padovana deve sobbollire a fuoco lento per oltre due ore, formando un denso brodo di cottura, un concentratissimo consommé da versare a cucchiaiate sulla carne. Si può servire con una salsa di cren appena ingentilita con mela verde.
Per ulteriori informazioni si rimanda al sito dell’associazione Pro Avibus Nostris